mercoledì 1 aprile 2015




L'ARRAMPICATA 
E IL FASCINO DELLA META



Della spedizione mi è rimasta addosso la sensazione di essere costantemente sotto lo sguardo della nostra montagna. Il Khan Tengri, con la sua mole di roccia e ghiaccio, è una presenza che pesa, una presenza costante, anche quando la montagna è avvolta nelle sue tumultuose nubi.
Ho in mente questa presenza mentre discuto con un tizio a proposito della scalata, in generale. Lui, bravissima persona, sostiene quello che da un po’ il mondo dell’arrampicata porta avanti: non è la meta che conta, ma il puro atto. Il fatto di divertirsi scalando. Il principe di questo pensiero, più volte citato dal mio interlocutore, è Gian Piero Motti.
Certo è affascinate: liberarsi dell’ossessione della meta, della cima eroica, per dedicarsi liberi al proprio gesto. Ma è davvero possibile? Per quanto?
Parlando con chi arrampica non si sente quasi più parlare di montagna, ma di grado di difficoltà: 6c, 7b, 8a,9c… E’ forse questo il nuovo obbiettivo? Forse la cima è stata sostituita da questa nuova conquista. Come una volta si puntava all’Everest, alla sfida con la montagna più alta, ora si punta al 9c, al grado più alto.
Il mio interlocutore ammette il rischio, sostenendo che bisogna liberarsi anche da questa ossessione, che l’arrampicata deve disfarsi anche della lotta col grado. Il punto, dice lui, è dedicarsi all’arrampicata che più può realizzarci, affrontando vie belle che ci ispirano.
Io faccio davvero fatica, cerco di capire. Stiamo quindi parlando di scegliere una via che esteticamente ci affascina, per salirla e quindi realizzarci? Però la meta c’è sempre, è la catena, la via percorsa e chiusa in libera. Già.
Purtroppo sbaglio ancora, l’interlocutore mi corregge: non centra chiudere la via, è il solo fatto di provarla, di scalare, di godere dei suoi movimenti…
A questo punto ho ripensato al Khan Tengri e alla sua scalata, esaltante. Ho pensato ai passaggi verticali di misto, alla cresta nevosa affilata, alla goulottina sotto al Chapaeva. Bellissimi, goduriosi, ma li avrei mai fatti così tanto per farli? O forse a spingermi ad affrontarli e a godermeli è stata la cima che pendeva costantemente su di me? E’ davvero possibile intraprendere una strada infischiandosene completamente della meta?
L’interlocutore per spiegarmi meglio cita Dostoevskij per cui “Colombo non era felice nel momento in cui scoprì l’America, bensì quando era in viaggio per scoprirla […] L’importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo della sua scoperta […] e non nella scoperta stessa”.
Bello, bellissime parole. Ma cosa avrebbe pensato Colombo se uscito dalle Colonne d’Ercole fosse precipitato nel vuoto, scoprendo che tutto ciò che l’aveva spinto a intraprendere il suo viaggio era errato? Sarebbe stato contento uguale?
E’ evidente che la grandezza di Colombo sta nell’averci creduto, contro tutto e tutti, nell’essere partito e aver continuato nonostante gli ammutinamenti. Ma la sua grande gioia non può che essere esplosa quando ha visto il lembo di terra davanti alla sua nave, quel lembo che compiva  tutto il viaggio intrapreso, che dava un senso alla sua sfida.
Ho forse capito una cosa da questo interessante colloquio con un moderno climber: che l’uomo d’oggi ha una fottuta paura di confrontarsi col mondo esterno. Ha un totale ripudio per la possibilità che il senso del sé possa venire da qualcosa di esterno. Qualsiasi cosa si faccia deve nascere dal sé e svilupparsi all’interno del sé. C’è la tremenda paura di perdere la propria autonomia.
Si è passati dalla lotta con l'alpe (l’uomo che sfida la montagna) alla lotta col sé (dove l’esterno è solo un mezzo). Eppure io continuo a rimanere affascinato da montagne gigantesche, che brillano là in alto sotto il sole. Ed è nella danza con quella bellezza, a cui tendo, che forgio anche me stesso, scoprendomi uomo desiderante. E’ nel tendere all’altro della montagna, che scopro anche me stesso, in un dialogo fatto di gesti e sensazioni.
Certo è l’intensità del viaggio che dà peso alla meta, ma senza meta il viaggio stesso mancherebbe di spinta. Senza il fascino dell’assoluta bellezza, di una bellezza che è altro da me, l’io si chiuderebbe implodendo, appassendo semplicemente su se stesso.
Stefano