L'ARRAMPICATA
E IL FASCINO DELLA META
Della spedizione mi è rimasta addosso la sensazione di essere
costantemente sotto lo sguardo della nostra montagna. Il Khan Tengri, con la
sua mole di roccia e ghiaccio, è una presenza che pesa, una presenza costante,
anche quando la montagna è avvolta nelle sue tumultuose nubi.
Ho in mente questa presenza mentre discuto con un tizio a proposito
della scalata, in generale. Lui, bravissima persona, sostiene quello che da un
po’ il mondo dell’arrampicata porta avanti: non è la meta che conta, ma il puro
atto. Il fatto di divertirsi scalando. Il principe di questo pensiero, più
volte citato dal mio interlocutore, è Gian Piero Motti.
Certo è affascinate: liberarsi dell’ossessione della meta, della cima
eroica, per dedicarsi liberi al proprio gesto. Ma è davvero possibile? Per
quanto?
Parlando con chi arrampica non si sente quasi più parlare di montagna,
ma di grado di difficoltà: 6c, 7b, 8a,9c… E’ forse questo il nuovo obbiettivo?
Forse la cima è stata sostituita da questa nuova conquista. Come una volta si
puntava all’Everest, alla sfida con la montagna più alta, ora si punta al 9c,
al grado più alto.
Il mio interlocutore ammette il rischio, sostenendo che bisogna
liberarsi anche da questa ossessione, che l’arrampicata deve disfarsi anche
della lotta col grado. Il punto, dice lui, è dedicarsi all’arrampicata che più
può realizzarci, affrontando vie belle che ci ispirano.
Io faccio davvero fatica, cerco di capire. Stiamo quindi parlando di
scegliere una via che esteticamente ci affascina, per salirla e quindi realizzarci?
Però la meta c’è sempre, è la catena, la via percorsa e chiusa in libera. Già.
Purtroppo sbaglio ancora, l’interlocutore mi corregge: non centra
chiudere la via, è il solo fatto di provarla, di scalare, di godere dei suoi
movimenti…
A questo punto ho ripensato al Khan Tengri e alla sua scalata,
esaltante. Ho pensato ai passaggi verticali di misto, alla cresta nevosa
affilata, alla goulottina sotto al Chapaeva. Bellissimi, goduriosi, ma li avrei
mai fatti così tanto per farli? O forse a spingermi ad affrontarli e a
godermeli è stata la cima che pendeva costantemente su di me? E’ davvero
possibile intraprendere una strada infischiandosene completamente della meta?
L’interlocutore per spiegarmi meglio cita Dostoevskij per cui “Colombo
non era felice nel momento in cui scoprì l’America, bensì quando era in viaggio
per scoprirla […] L’importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo
della sua scoperta […] e non nella scoperta stessa”.
Bello, bellissime parole. Ma cosa avrebbe pensato Colombo se uscito
dalle Colonne d’Ercole fosse precipitato nel vuoto, scoprendo che tutto ciò che
l’aveva spinto a intraprendere il suo viaggio era errato? Sarebbe stato
contento uguale?
E’ evidente che la grandezza di Colombo sta nell’averci creduto,
contro tutto e tutti, nell’essere partito e aver continuato nonostante gli
ammutinamenti. Ma la sua grande gioia non può che essere esplosa quando ha
visto il lembo di terra davanti alla sua nave, quel lembo che compiva tutto il viaggio intrapreso, che dava un
senso alla sua sfida.
Ho forse capito una cosa da questo interessante colloquio con un
moderno climber: che l’uomo d’oggi ha una fottuta paura di confrontarsi col
mondo esterno. Ha un totale ripudio per la possibilità che il senso del sé
possa venire da qualcosa di esterno. Qualsiasi cosa si faccia deve nascere dal
sé e svilupparsi all’interno del sé. C’è la tremenda paura di perdere la
propria autonomia.
Si è passati dalla lotta con l'alpe (l’uomo che sfida la montagna) alla
lotta col sé (dove l’esterno è solo un mezzo). Eppure io continuo a rimanere
affascinato da montagne gigantesche, che brillano là in alto sotto il sole. Ed
è nella danza con quella bellezza, a cui tendo, che forgio anche me stesso,
scoprendomi uomo desiderante. E’ nel tendere all’altro della montagna, che
scopro anche me stesso, in un dialogo fatto di gesti e sensazioni.
Certo è l’intensità del viaggio che dà peso alla meta, ma senza meta
il viaggio stesso mancherebbe di spinta. Senza il fascino dell’assoluta
bellezza, di una bellezza che è altro da me, l’io si chiuderebbe implodendo,
appassendo semplicemente su se stesso.
Stefano
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