Guardare
Ueli Steck che corre sulla parete nord dell'Eiger, afferrando minuscole tacche
con picche e ramponi, lascia increduli e sbigottiti. Neppure le esagerazioni
dei film americani, neppure Fast and Furious, hanno osato tanto. Eppure è
realtà: l'alpinista svizzero ha davvero salito quel gigante di ghiaccio e
roccia così, in solo 2 ore e 22 minuti.
Quando
ho saputo che Steck era arrivato in cima all'Annapurna, in solitaria e in poche
ore lungo la pericolosissima parete sud, ho fatto fatica a crederci.
L'Annapurna è l'Ottomila che si è concesso meno di tutti, ed è forse la
montagna più micidiale del mondo. Salirla in quel modo, come fosse un giro in Grignetta,
mi appariva quasi dissacrante; la dimostrazione ultima che Steck era di un
altro pianeta, molto oltre quello che è stato l'alpinismo fino ad oggi.
Dopo
l'Annapurna non so come Steck avrebbe potuto ancora stupirci. Perfino
l'obbiettivo della traversata Everest-Lhotse non mi ha impressionato più di
tanto. Era quasi scontato che l'avrebbe portata a casa senza problemi, come al
solito. Ormai Steck era capace di tutto: di prendere qualsiasi impresa per
tutti impossibile e trasformarla in un exploit sportivo di successo.
Seguendo
gli allenamenti che stava facendo in Nepal, ci si rendeva conto di quanto fosse
sovrumana la sua preparazione. Leggendo di lui sui siti specializzati,
traspariva un alpinista-macchina, immune da qualsiasi limite, capace di salire
dai 5000m di quota ai 7000m in poche ore.
Poi,
una mattina, accendendo il computer, la notizia: Ueli Steck è morto.
La
prima reazione è stata quella di non crederci, non era possibile! Poi ci si
rende conto che è così, che è davvero successo, in un allenamento lungo i
pendii del Nuptse.
L'uomo
dell'impossibile, dei successi infiniti, era morto mentre si preparava per la
sua salita. Appare come una beffa: non è stato durante uno dei suoi exploit al
limite, non è stato durante l'impresa che preparava da mesi, ma è morto durante
un giro di acclimatamento.
Certo
il Nuptse è una montagna difficile ed impegnativa, che supera i 7800m, ma
nell'idea di Steck quello era un banco di prova, una preliminare in
preparazione del grande slam.
Eppure
lì il grande alpinista è scivolato, sparendo per sempre. E' successo proprio
lì, fra le braccia del Nuptse, nonostante nessuno l'avesse previsto o
preventivato.
Ora
fanno eco i più disparati commenti; da chi se la prende con Steck, accusandolo
di aver tirato troppo la corda, a chi grida alla solita montagna assassina. Ma
la montagna è troppo grande, troppo
immensa per occuparsi degli uomini che strisciano lungo i suoi pendii. E
altrettanto grande è il desiderio di chi si innamora di quelle montagne,
venendo attratto da qualcosa che va oltre il semplice istinto di sopravvivenza.
Si
potrebbe pensare che il destino di Steck fosse segnato, che in fondo alla sua
pista ci fosse il Nuptse. Forse è così, ma più in generale direi che la
montagna è fatta come è fatta e il destino di chi la percorre è ad essa legato.
Solo l'accettazione di questa realtà può consentire all'alpinista di essere
consapevole di sé, per arrivare a camminare sul filo dei propri limiti, con
tutto ciò che può comportare.
Steck
non è morto all'apice della sua prestazione, ma sui pendii di una montagna. Una
montagna troppo grande per accorgersi di lui, ma troppo bella perché Steck non
fosse lì in quel momento. Quel giorno il Nuptse aveva uno strato di neve fresca
appoggiato sulle lastre di ghiaccio vivo, era così perché la montagna aveva
scelto quella veste, indipendentemente dagli uomini. Steck è scivolato via ma
non è colpa di nessuno, se non dell'alpinismo. Del desiderio dell'uomo che non
si accontenta di sopravvivere alla realtà, ma che ne è indissolubilmente attratto,
con tutto se stesso.
Stefano Sala
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