LA VERITA' DELL'IO
Tornato dalla spedizione, come è normale che sia, le persone ti
chiedono come è andata, come è stata: ti chiedono di raccontare. Io racconto
volentieri, mostro le foto, dico impressioni, sensazioni… eppure, alla fine, ci
si accorge che qualcosa manca.
La cosa che più rimane impressa del racconto, su cui più si soffermano
le domande, è la fatica e il pericolo, la scomodità della vita in spedizione e
il rischio corso. E’ qui che cade il quesito più ovvio: perché? Perché passare
la propria estate in questo modo? Perché spendere tutto quel tempo e soldi e
fatica per una cosa così?
La domanda è ovvia e giustissima, noi stessi ce la ponevamo,
soprattutto negli infiniti tempi morti che caratterizzano la vita ai campi.
Nelle notti infinite, con la bufera che ulula fuori e il respiro che ghiaccia
sul telo interno della tenda, è naturale chiedersi: “perché? Perché sono qui?”
Ecco, è proprio questo che manca nel racconto che continuo a fare
della spedizione: la risposta a questo “perché”. Manca perché è un vissuto che rimane
senza parole.
L’altra domanda che spesso ci si sente rivolgere è: “continuerai ad
andare in montagna o ne hai avuta abbastanza?” (La stessa domanda che mi
facevano dopo che sono stato investito da una valanga).
Quando sono partito ero convinto che una volta tornato per un po’
sarei stato tranquillo, godendomi relax e terre piatte. Invece, sull’aereo che
mi riportava in Italia, mi sono sorpreso ad avere addosso un irrefrenabile
desiderio di montagna. Perché? Anche la risposta a questo “perché” è senza
parole, è qualcosa che parte dal cuore, che non ci si sa spiegare ma che c’è.
Una certa ermeneutica contemporanea, nel rivalutare l’Ideale di
Platone, lo definisce un essere-non-ancora che tuttavia è già-qui. Questa
stessa definizione incarna bene tutti i “perché” del mio andare in montagna.
Perché certamente, alla domanda “perché sono qui?” che mi facevo nella
notte a campo due, con le gocce di ghiaccio che mi picchiettavano il volto, ho risposto il
giorno dopo. Ho risposto commuovendomi mentre legavo il rosario di mio padre
sulla cima del Chapaeva.
E al “perché questo profondo desiderio di montagna?” la risposta è
quella del lunedì, il giorno dopo la scalata. Il giorno in cui mi immergo nuovamente
nei casini del lavoro, con però un certo dolore alle gambe: le labbra bruciare,
le spalle stanche, il costante ricordo del compagno di cordata e della cima.
La risposta al “perché” è nei sintomi dell’andare in montagna, segni
di una gioia e una soddisfazione assolutamente grande, una bellezza
assolutamente grande. Una grandiosa bellezza vissuta che ti da la forza e la
voglia di fare in modo altrettanto grande e bello il tuo lavoro quotidiano. Che
ti alimenta il desiderio di vivere in modo grandioso, perché hai sperimentato
quella grandiosità.
Ecco, vado in montagna per sentirmi pienamente me stesso, per vivere
quella grandiosa bellezza per cui mi sento fatto e che profondamente desidero.
E vado in montagna per poi ritrovare la forza e la speranza di esportare quella
bellezza in ogni mio giorno della mia vita, per vivere quella grandiosa
bellezza che è un essere-non-ancora che tuttavia è già-qui.
Stefano Sala
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