domenica 20 luglio 2014

QUANDO IL GIOCO SI FA DURO...

Slavina per Stefano. Tendinite (quasi risolta) e allenamento fermo da settimane per Claudio.

Abbiamo le nostre preoccupazioni, ma l'adrenalina sale in vista della spedizione 2014 al Khan Tengri (7010 m). 
Ripercorriamo con la mente le ragioni che ci hanno spinto a organizzare questa avventura. Troviamo la motivazione e la passione di chi non parte per conquistare una montagna, ma parte per un viaggio dentro se stesso, per osservare e gustare il mondo che ci è dato e infine tornare tra gli uomini.

Giovedì prossimo 24 luglio partiremo alle ore 14 dall'aeroporto di Orio al Serio alla volta di Almaty (Kazakhstan). 
Giunti in Asia centrale, in aeroporto incontreremo i kazaki che gestiscono il campo base del Khan Tengri sul ghiacciaio Engilchek Nord. Verremo portati in jeep al campo logistico di Karkara dove il 27 luglio saliremo sull'elicottero che volerà fino al campo base al confine con Cina e Kyrgyzstan.

Le previsioni sul Khan Tengri parlano di condizioni climatiche molto dure in questi giorni: finestre di bel tempo ridotte al minimo, fino a 20 cm di neve scaricata quasi ogni giorno, una temperatura percepita fino a - 31°C in vetta.
Sarà dura.
Cercheremo di affrontare l'ascensione con intelligenza e il giusto ritmo per poterci acclimatare nel migliore dei modi, sperando di non avere ricadute fisiche al tendine o mal di montagna acuto.
Il nostro obiettivo minimo è di raggiungere lo sperone nord del Pik Chapayeva (6150 m), il cui sperone settentrionale costituisce la via seguita per raggiungere campo 3 prima di tentare la salita finale al Khan Tengri.



Non sarà possibile aggiornare il blog in tempo reale, non disponendo di una connessione internet al campo base. 
Potremo probabilmente utilizzare un paio di volte il telefono satellitare in dotazione al campo base per avvisare i nostri cari ed eventualmente segnalare tramite loro sul blog i progressi della spedizione dopo una decina di giorni circa.

Un saluto a tutti!
Claudio e Stefano




venerdì 4 luglio 2014


UNA VIA, UNA VALANGA E LA BELLEZZA DELLA MONTAGNA


Le gambe sono prese da una strana frenesia, mentre con le mani semi congelate percorro la cengia rocciosa. Sento Ale che mi chiama, mi fermo strofinandomi le dita e guardo in basso: lo stretto colatoio di misto è irriconoscibile, sfigurato dalla grande valanga che mi ha appena graziato.

Siamo partiti alle 23.30 da casa, da Milano, con una decisione presa all’ultimo momento. L’obiettivo era una vecchia storia, la via del Dubbio, una via sconosciuta sul versante est del Tambò, una via non estrema, ma affascinate e selvaggia.
Abbiamo calzato gli scarponi al buio, poi i primi bagliori rossi hanno iniziato a tingere il cielo timidamente, sbucando da dietro i torrioni del Suretta. Superata la crepaccia terminale abbiamo risalito il pendio di neve dura, buona, fino alla bastionata rocciosa. Qui per placche e speroni siamo saliti facilmente, imboccando poi il canale finale.
Piccozze e ramponi entrano alla perfezione, Ale è sullo sperone roccioso, mentre io giungo ad una strettoia verticale che per rocce rotte risalgo fino all’ultima placca: in piedi, in bilico su una lama di neve, cerco di conficcare le picche nella neve inconsistente sopra la placca. Mi muovo precariamente quando sento Ale urlare: “Attento Ste!”.
L’urlo continua, sento un boato tremendo avvicinarsi. Mollate le picche nello zoccolo di neve sopra di me, mi metto rasente la placca, stando il più possibile sotto il casco. Intorno a me scoppia il finimondo: neve fradicia e sassi mi piovono tutti attorno investendomi sullo zaino e la testa. Diventa tutto buio, sento massi enormi saltarmi mandando in frantumi la massa di neve che mi protegge, le mie piccozze vengono spazzate via. Cerco di non farmi sbilanciare, non penso a niente, cerco di rimanere in equilibrio.
Pian piano la furia della valanga diminuisce, un’ultima vomitata di neve e poi basta; incredulo inizio a muovermi seguendo lentamente la cengia che mi porta sullo sperone a destra del colatoio.

Quando Ale mi raggiunge non crede ai suoi occhi nel trovarmi ancora vivo.

Eppure anche nella tragedia scampata la montagna nasconde una bellezza inaspettata: la bellezza della sua selvaggia grandezza. La bellezza di una natura che compie il suo corso, che semplicemente è. Una bellezza in cui noi possiamo inoltrarci, senza poterla mai veramente dominare. E così, davanti all’esaltazione delle nostre scalate, ci accorgiamo che anche la nostra vita à nelle mani di un Altro, a cui possiamo semplicemente dire grazie.

Stefano