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lunedì 8 settembre 2014


L'URLO DELLA NATURA



"Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo... Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo."               Edvard Munch


25 luglio 2014 - Campo logistico di Karkara – Frontiera tra Kazakhstan e Kyrgyzistan.

La tensione comincia a salire. Domani voleremo a bordo dell’elicottero militare kyrgyzo fino al campo base [1].
Mi allontano dalla tenda per sgranchirmi le gambe e fare una passeggiata.
Cammino in una valle non dissimile dalle nostre nelle Alpi: verdi pascoli, pinete, un torrente che separa i due stati.
Eppure al tramonto c’è una luce strana. Si percepisce un’atmosfera da frontiera, da fine del mondo conosciuto, oltre il quale solo ghiacci perenni e montagne senza nome abitano questo pianeta. La Terra allo stato primordiale.
Nella luce che si tinge di rosso si percepisce tutto questo. E’ un’atmosfera che fa tremare i polsi.
E’ come l’urlo della natura più selvaggia e spietata di fronte all’uomo.

Viene da chiedersi se mentre i sistemi solari e le galassie continuano il loro moto perpetuo la Misericordia da qualche parte stia salvando qualcuno [2].
Perché è proprio questo il punto: cos’è ultimamente questa realtà che ci è data nella quale camminiamo con reverenza e stupore?
Queste montagne che scaliamo sono per noi una promessa… la promessa che la bellezza che assaporiamo sia segno di una Bellezza più grande ed eterna.
Non c’è motivo più profondo per rischiare e mettersi in gioco tra i dirupi e le cime di questo: verificare questa promessa.
Ma la verifica è possibile solo in un rapporto umano. Un rapporto innanzitutto con se stessi [3], cioè conoscendo meglio se stessi, la propria natura profonda e i propri desideri più veri. E poi un rapporto con altri uomini, che come noi hanno sete di verità e bellezza. Con loro è possibile forse iniziare un cammino. 
Mentre scalando verso la cima andiamo sempre più in alto, camminando insieme a loro è possibile andare più in profondità della nostra vita.

Note
[1] - Campo base nord del Khan Tengri - Spedizione 2014
[2] - E' la domanda che si pone Kurt Diemberger (il grande alpinista austriaco) nel film "Verso Dove".
[3] - Rimando al post "La verità dell'io" (http://mountain-explorers.blogspot.it/2014/09/la-verita-dellio-tornato-dalla.html).

Claudio Pesenti

lunedì 1 settembre 2014


LA VERITA' DELL'IO




Tornato dalla spedizione, come è normale che sia, le persone ti chiedono come è andata, come è stata: ti chiedono di raccontare. Io racconto volentieri, mostro le foto, dico impressioni, sensazioni… eppure, alla fine, ci si accorge che qualcosa manca.
La cosa che più rimane impressa del racconto, su cui più si soffermano le domande, è la fatica e il pericolo, la scomodità della vita in spedizione e il rischio corso. E’ qui che cade il quesito più ovvio: perché? Perché passare la propria estate in questo modo? Perché spendere tutto quel tempo e soldi e fatica per una cosa così?
La domanda è ovvia e giustissima, noi stessi ce la ponevamo, soprattutto negli infiniti tempi morti che caratterizzano la vita ai campi. Nelle notti infinite, con la bufera che ulula fuori e il respiro che ghiaccia sul telo interno della tenda, è naturale chiedersi: “perché? Perché sono qui?”
Ecco, è proprio questo che manca nel racconto che continuo a fare della spedizione: la risposta a questo “perché”. Manca perché è un vissuto che rimane senza parole.

L’altra domanda che spesso ci si sente rivolgere è: “continuerai ad andare in montagna o ne hai avuta abbastanza?” (La stessa domanda che mi facevano dopo che sono stato investito da una valanga).
Quando sono partito ero convinto che una volta tornato per un po’ sarei stato tranquillo, godendomi relax e terre piatte. Invece, sull’aereo che mi riportava in Italia, mi sono sorpreso ad avere addosso un irrefrenabile desiderio di montagna. Perché? Anche la risposta a questo “perché” è senza parole, è qualcosa che parte dal cuore, che non ci si sa spiegare ma che c’è.

Una certa ermeneutica contemporanea, nel rivalutare l’Ideale di Platone, lo definisce un essere-non-ancora che tuttavia è già-qui. Questa stessa definizione incarna bene tutti i “perché” del mio andare in montagna.

Perché certamente, alla domanda “perché sono qui?” che mi facevo nella notte a campo due, con le gocce di ghiaccio che mi  picchiettavano il volto, ho risposto il giorno dopo. Ho risposto commuovendomi mentre legavo il rosario di mio padre sulla cima del Chapaeva.
E al “perché questo profondo desiderio di montagna?” la risposta è quella del lunedì, il giorno dopo la scalata. Il giorno in cui mi immergo nuovamente nei casini del lavoro, con però un certo dolore alle gambe: le labbra bruciare, le spalle stanche, il costante ricordo del compagno di cordata e della cima.
La risposta al “perché” è nei sintomi dell’andare in montagna, segni di una gioia e una soddisfazione assolutamente grande, una bellezza assolutamente grande. Una grandiosa bellezza vissuta che ti da la forza e la voglia di fare in modo altrettanto grande e bello il tuo lavoro quotidiano. Che ti alimenta il desiderio di vivere in modo grandioso, perché hai sperimentato quella grandiosità.

Ecco, vado in montagna per sentirmi pienamente me stesso, per vivere quella grandiosa bellezza per cui mi sento fatto e che profondamente desidero. E vado in montagna per poi ritrovare la forza e la speranza di esportare quella bellezza in ogni mio giorno della mia vita, per vivere quella grandiosa bellezza che è un essere-non-ancora che tuttavia è già-qui.

Stefano Sala

venerdì 22 agosto 2014


NON TUTTI I VAGABONDI SONO PERDUTI




“And the times when we were young
When life seemed so long
Day after day
You burned it all away”
                                                          Anathema


Avevo una chiara sensazione durante la spedizione [1]. La sensazione di non avere tempo da perdere.
Il tempo scorre vorace, spesso divora intere giornate lasciandoci nell’indifferenza occupati come siamo con il lavoro, gli hobby,… le cose da fare.
E’ affascinante come durante una spedizione il tempo assuma invece una dimensione dilatata. Non ci sono più gli affanni e la burocrazia della vita quotidiana. E’ affascinante e al tempo stesso psicologicamente provante: quando si è soli con se stessi e i propri pensieri, per ore chiusi in una tenda mentre fuori nevica, ogni domanda, ogni ferita aperta, ogni problema emerge imponente davanti a noi e chiede una risposta.
Allo stesso modo durante la scalata, quando il cielo si apre e gli spazi si fanno sconfinati, la bellezza suscita domande che non avevamo dentro di noi e che ugualmente si impongono come ferite aperte. E in questo sta tutto il potere della realtà: quello che accade sotto i nostri occhi nei momenti che si succedono (anche quelli apparentemente meno significativi) genera qualcosa nell’uomo, genera una presa di posizione, genera movimento.
L'ho capito uscendo dalla tenda a campo 1 [2] nella notte profonda: alzo gli occhi e si apre la vista della nostra galassia con miliardi di stelle che accendono il buio e danno profondità al cielo.
Basta avere uno sguardo attento e sapere dove guardare. Anche nei momenti più imbarazzanti.
Non ci sono riempitivi. E’ la vita al proprio stato essenziale.
Non c’è spazio per l’indifferenza.
Di fatto abbiamo deciso di metterci in gioco, di viaggiare, di metterci in cammino.
Vaghiamo su questa terra, camminiamo su ghiacciai, percorriamo creste affilate, passiamo le notti in bivacco. Vaghiamo osservando tutto con attenzione e rigoroso silenzio. Siamo vagabondi, ma non siamo perduti.
In un certo senso la cima della montagna che vogliamo raggiungere indica simbolicamente che abbiamo una meta ben chiara in testa: la verità.
Scalando le montagne vogliamo raggiungere la verità di noi stessi e avvicinarci alla Verità della realtà.

Note
[1] - Spedizione 2014 al Khan Tengri (Tien Shan, Kazakhstan), 7010 m.
[2] - Campo 1 del Khan Tengri, quota 4500 m.
Claudio Pesenti


lunedì 2 giugno 2014


ANNI '70: RITORNO ALLA REALTA'



"Welcome my son, welcome to the machine.
What did you dream?
It's alright we told you what to dream.
You dreamed of a big star,
He played a mean guitar,
He always ate in the Steak Bar,
He loved to drive in his Jaguar.
So welcome to the Machine"
Pink Floyd . Welcome to the Machine - 1975

Nel 1975 gli inglesi Pink Floyd pubblicavano l'album "Wish you were here", capolavoro assoluto della storia della musica. 
Seconda traccia dell'album, composta da Roger Waters, è "Welcome to the machine", straziante lamento di un uomo consapevole di essere nient'altro che un ingranaggio nella grande macchina della società industriale, in cui i desideri, i sogni, gli obiettivi della persona vengono imposti dalla società come attraverso una sorta di messaggio subliminale (i posti in cui mangiare, le auto da guidare, etc).

E' assolutamente vero che abbiamo perso il contatto con la realtà (la creazione per qualcuno), immersi come siamo in una realtà totalmente virtuale: televisione, computer, tablet, smartphone,... .
L'alpinismo in un certo senso per qualcuno nasce come riscoperta della realtà, quella vera, dove l'uomo riconosce in modo assolutamente cristallino di essere creatura e non creatore, dove le dimensioni degli spazi naturali rendono umile la ragione e la risvegliano dal torpore determinato da liste di cose da fare e stimolazioni digitali.
Nel silenzio di una notte in bivacco non ci si può mentire. 
Dimenticati gli affanni, le tasse, la spesa, gli hobby per riempire il tempo,... la ragione lavora e si interroga sulla sostanza di quello che ha visto durante la giornata: nevi perenni, nuvole, pascoli, acqua, la ruota del cielo stellato,... .

Tre anni dopo l'uscita di "Wish you were here", nel 1978, il grande alpinista inglese Peter Boardman scriveva "La Montagna di Luce", libro in cui racconta la difficile scalata della parete ovest al Changabang, nell'Himalaya indiano.
Il libro inizia con lo struggimento interiore dello scalatore per la "rovinosa corsa della vita urbana".
Si legge inoltre: "... ci vuole molta più sopportazione a lavorare in una città di quanta ne sia richiesta per scalare un'alta montagna. Ci vuole molta più pazienza a vedere le speranze e le ambizioni dell'infanzia distrutte e a sottomettersi alla routine giornaliera del lavoro che ti inserisce in un piccolo dente della ruota della civiltà occidentale. Alpinisti (...). Ma chi sono costoro? Occidentali eroi di professione? Parassiti in fuga che giocano all'avventura? Ossessionati disertori che vogliono fare qualcosa di diverso? Scontenti ed egomaniaci che non si assoggettano alla disciplina del conformismo?".

Forse gli alpinisti con questa coscienza sono semplicemente... uomini veri.

Claudio Pesenti